Le scuole di management devono ripensare il proprio modello di business ma sono diverse dalle società di consulenza: agli accademici non piace sentirsi dire cosa devono fare… : efmd-kaipeters
Le scuole di management devono ripensare il proprio modello di business ma sono diverse dalle società di consulenza: agli accademici non piace sentirsi dire cosa devono fare… : efmd-kaipeters
Su linkedin – community AIDP – è stato riproposto questo divertente video di martinazzoli sui punti deboli dello stile HR – supermasterizzato.
Elio borgonovi argomenta in modo interessante sull’esigenza che le business schools si reinventino come business partners.
Continuano la riflessione e il ripensamento innescati dalla crisi nell’ambiente delle business_school , come evidenzia questo nuovo rapporto internazionale; l’impressione è che tutto questo sia ancora abbastanza staccato da quanto avviene nelle imprese, dove chi decide è pressato da esigenze più immediate.
giulio sapelli riprende Financial Times sul fatto che «Le business school non sono state in grado di articolare quello che dovrebbe essere il ruolo del management». E’ un problema non di istruzione tecnica ma di formazione: “si afferma a chiare lettere che il ruolo del manager, in definitiva, è quello di essere classe dirigente e quindi di dar vita sempre a comportamenti universalistici, non egoistici, disinteressati. Le ragioni del fallimento risiedono nell’ incapacità di creare una cultura della professione e della responsabilità della professione stessa. Si sono formate e si formano, in tal modo, persone che pensano, cito: «Più a se stessi che agli investitori»”.
Il Dean della IESE ripropone una visione umanistica dell’impresa con una riflessione autocritica sulle business schools:
“The humanistic deficit. In many schools, faculty members see firms as organizations whose social purpose is to maximize profits for shareholders, and align executive pay to economic performance. Unfortunately, these theories have displaced some higher ideals in the business world
and the force of pragmatism in getting results has become the dominant paradigm.
The claim that people are important is stronger than ever; but in practice, many decisions are taken without considering their impact on people. Today, we have management models completely void of human presence, where decision making happens in a mechanical way and incentives shape
the motivations of the agents.
At the beginning of the 20th century, prominent business people had the perception that companies had a social purpose, beyond making money. As a matter of fact, the foundation of schools such as Harvard and IESE is rooted in the conviction that educating business leaders in a rigorous, ethical way is important for the good of society.”
L’economist pubblica una discussione tra due dean sui cambiamenti necessari alle business schools per affontare un futuro incerto.
Sul sito della Fondazione Istud è accessibile un interessante materiale su “leggere e comprendere la crisi”. Segnalo tra l’altro un intervento di Mario Unnia di cui riporto un brano sulla ricerca dei colpevoli:
In generale, è prevalso un comportamento ispirato alla ricerca del
colpevole, i governi e le banche, la finanza, per prime, indicate come unico
capro espiatorio. L’establishment industriale, manager in testa, ha preferito
scaricare tutte le responsabilità sulla finanza. Le professioni, a cominciare
dalla consulenza, si sono tirate fuori, scusandosi col dire di aver dato al
mercato ciò che il mercato chiedeva.
A questo proposito ricordo che in USA, proprio nei giorni caldi della crisi,
ci sono state due dichiarazioni emblematiche. Harvard ha celebrato i suoi
100 anni vantandosi di avere formato il 50% dei manager USA e del mondo
intero: eppure, a fronte di questo incisivo intervento sulla cultura
manageriale, non vi è stata nessuna ammissione di corresponsabilità. Per
contro, il dean del Mit dichiarava che esistevano delle precise responsabilità
delle università e delle business school, e prendeva impegno di rivedere a
fondo le filosofie di fare impresa che fino ad allora erano state insegnate.
Su Il Sole24Ore una sola voce s’è levata invitando l’accademia a fare
autocritica, subito è stata zittita dicendo che l’università e le business school
avevano dato il meglio di sé, e non erano responsabili per gli allievi
devianti. In sede Apco ho posto il problema di un’autocritica della
consulenza, ma è stato rifiutato. Idem in sede Aif.
La stampa ha sparato a zero sul mondo del credito, salvo dimenticare che nei
consigli delle banche e delle assicurazioni siedono imprenditori e
professionisti (il cosiddetto capitalismo di relazione), e che gli stessi siedono
nel consigli dei giornali, perché da noi non c’è l’editore puro.
Quanto al sindacato dei dirigenti, proprio nei giorni caldi s’è tenuto un
convegno di Federdirigenti lombardi: nessun cenno alle responsabilità, solo
la lamentazione per il taglio degli organici e la richiesta della revisione delle
pensioni, ritenute inadeguate. Nessuna traccia di autocritica naturalmente dai
sindacati.
Non sono in grado di indicare come usciremo dalla crisi. Mi sono limitato ad
indicare una chiave di lettura.
Il motto tremontiano “silete economisti!” inizia a trovare applicazione nelle business schools. Questo articolo sul managerilluminato di D – la_repubblica_delle_donne – documenta l’apertura a culture diverse nella formazione dei manager. Speriamo che il terreno sia recettivo!