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Rientrano in questo argomento gli interventi che riguardano le problematiche della formazione, della ricerca e del management universitario

Meno matricole = crisi

Il calo di immatricolazioni all’università di quest’anno è drammatizzato dai giornali come grave sintomo di crisi e disaffezione:  università addio?  Ma i dati andrebbero forse letti con maggiore intelligenza: ad esempio ci si può stupire che a Roma calino gli iscritti a Tor Vergata (che sta a ridosso del grande raccordo anulare), o a La Sapienza (che è congestionata)  e aumentino a Roma Tre (che sta in posizione favorevole e ha molto migliorato le sistemazioni edilizie)?

Ho fatto un tentativo di maggiore riflessione in questa metro-intervista , come si vede con scarso risultato.

La funzione culturale dell’Università

La relazione del rettore Ornaghi all’inaugurazione della Cattolica merita ancora attenzione, dopo qualche mese, per le domande poste riguardo alla funzione culturale dell’università, al di là delle contingenze attuali. Si riportano alcuni passaggi:

“La funzione culturale dell’Università comincia a indebolirsi, e l’essenza stessa dell’Università si smarrisce o snatura, quando la prospettiva dello Studium generale diventa poco più che una parola del passato, talvolta anche per chi negli Atenei e per gli Atenei vive e lavora. Non sono gli eventi collocati alla superficie dei cambiamenti in corso ad allontanarci sempre più dall’essenza dell’Università; né il comprensibile svolgimento e l’accentuata divaricazione delle specializzazioni disciplinari; né, infine, il diverso grado con cui le ricerche in alcuni campi sono oggi socialmente più utili di altre, o tali vengono considerate dalle convinzioni e convenzioni più diffuse: le ricerche su come renderci più belli o esteticamente meno sgradevoli sono certamente più interessanti, e attraenti da finanziare, rispetto a qualsiasi seria indagine che abbia per oggetto il più o meno recente passato. Siamo noi, nelle nostre Università, a non praticare più lo Studium generale, a non credere nella sua capacità di saper produrre ciò che per il presente e il domani è davvero nuovo e utile.

L’infiacchirsi dell’idea di Studium generale consegue – o, più probabilmente, vi si lega in stretta interdipendenza – al declinare dell’idea di humanitas, quale architrave di ogni forma di sapere, di una ‘visione umanistica’ quale componente indispensabile affinché ogni passo in avanti della conoscenza scientifica sia autenticamente un suo progresso.

siamo davvero sicuri che l’Università debba soltanto offrire una formazione a domande e aspettative ‘date’ (spesso date genericamente, troppo condizionate dai bisogni del presente e assai incerte su quelli del futuro), o non invece essa stessa debba contribuire a formare un’offerta che crei la domanda più appropriata, a cui poi fornire la risposta più competente e utile? È solo rafforzando la sua funzione culturale che, a me sembra, l’Università può contribuire con successo a una tale offerta. Ma è soprattutto non smarrendo la sua natura di Studium generale che l’Università può preparare non semplicemente professionisti più o meno in grado di rincorrere le esigenze delle diverse forme dei ‘mercati’, con le loro spesso impreviste fluttuazioni, bensì professionisti capaci – almeno in una loro quota significativa – di essere componenti attivi delle future classi dirigenti. Quando la formazione universitaria si sganciasse ancora di più da quell’humanitas, da quel fondamento umanistico a cui tuttora tende uno Studium generale, non conosciamo ancora bene che cosa il Paese e noi guadagneremmo. Sappiamo però, con certezza, che cosa per sempre perderemmo.

Riflettere sull’essenza dell’Università, sulle sue funzioni ancora indispensabili, sul nesso fra didattica e ricerca, significa volere e saper pensare – anche nei frangenti di questi mesi – al domani incombente di questa nostra Istituzione. Ed è proprio il domani dell’Università, quello immediato e quello meno vicino, che soprattutto ci deve stare a cuore.

Proprio perché è il domani dell’Università che soprattutto ci deve stare a cuore, l’‘essenza’ dell’Università – la sua ‘idea’ – andrà salvaguardata e, auspicabilmente, promossa e rafforzata. Per farlo, occorre da subito bloccare e rovesciare quel processo per cui – da ormai troppo tempo – il pluralismo degli Atenei è costretto a cedere il passo a un’omologazione forzata, a una crescente ingessatura amministrativo-burocratica, a una massiccia irreggimentazione dentro requisiti e criteri (anche di valutazione, certamente) che, più che mirare a una reale qualità, talvolta rispecchiano soltanto o l’apparente neutralità dei numeri o, peggio ancora, standard di giudizio di cui – se l’occhio è allenato a osservare con prospettiva storica lo svolgimento della conoscenza scientifica e delle scienze – facilmente prevedibile è la volatilità”.

Ecco il RAE

timeshighereducation pubblica e commenta i risultati del RAE 2008, la valutazione della ricerca inglese, che influenza potentemente i finanziamenti pubblici per le università. Ciò che pesa di più alla fine è il “research power” (a mixture of excellence and volume): questo determina il finanziamento.  Una formula finale  che moltiplica i punteggi medi attribuiti per il volume dello staff di ricerca presentato alla valutazione spiega il cash flow totale ottenuto: così è in testa Oxford (che ha presentato lo staff più numeroso) seguito da  Cambridge, Manchester, UCL, Edinburgh, Nottingham and Imperial College.

Ma THE documenta anche un interessante dibattito: l’ultimo intervento è significativo:

“This discussion has largely ignored the underlying purpose of the RAE. It is not about research quality, or the ‘world class’ work done by Dr X, or Prof. Y. It is a tool invented by civil servants to manage higher education. …   it is an administrative game that academics simply need to play, rather than to take personally. The anxious rants and raves that have featured in this discussion seem to reflect a community that has lost sight of the intrinsic value of its own work. For myself, I have spent four RAEs analysing the rules and playing the game to the best of my ability on behalf of several different departments. But, I have never let it effect my belief in the importance and value of my own research, scholarship or teaching. If, as a community, we are going to discuss this system, let us be clear that its relationship to ‘quality’ is inherently tangential, contingent and largely irrelevant, even when our jobs, and futures and comforts depend on the outcome”.

L’origine banale dei problemi

Cambiano i governi, ma se si guardano gli interventi normativi dal punto di vista dell’intelligenza delle soluzioni la minestra è sempre la stessa. Con questo articolo luca ricolfi mette il dito sulla piaga a proposito delle riforme dell’istruzione che al di là del merito devono essere continuamente corrette per problemi di semplice buon senso: “sarò forse un ingenuo, ma a me certi errori “legislativi” paiono semplicente il frutto di fretta, superficialità e impreparazione tecnica”… Ricolfi vede però anche cause più profonde…